L’aiuto al suicidio resta una condotta penalmente sanzionabile. Tuttavia, occorre considerare specifiche situazioni in cui il progresso della medicina spesso strappa alla morte persone senza restituire loro una sufficienza di funzioni vitali.
All’udienza dello scorso 23 Ottobre, la Corte Costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità dell’art. 580 c.p. nel caso Cappato, “rilevato che l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”, al fine di”consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina” ha rinviato la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale all’udienza del 24 settembre 2019.
Lo scorso 16 Novembre sono state pubblicate le motivazioni a sostegno di tale decisione.
La vicenda è tristemente nota a tutti.
Fabiano Antoniani, in arte “Dj Fabo”, a causa di un gravissimo incidente stradale era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale, privo di autonomia nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione.
Le sue capacità intellettive e la sensibilità al dolore, invece, erano rimaste intatte.
L’irreversibilità delle sue gravissime condizioni di salute lo aveva portato a maturare la volontà di porre fine alla sua esistenza mediante suicidio assistito in una struttura in Svizzera.
Ad accompagnarlo in questo suo ultimo viaggio era stato l’esponente radicale Marco Cappato.
DJ Fabo moriva il 27 febbraio 2017 azionando con la bocca uno stantuffo che aveva permesso l’iniezione nelle sue vene di un farmaco letale.
Marco Cappato veniva, quindi, sottoposto a procedimento penale per “istigazione o aiuto al suicidio”, fatto per il quale, se il suicidio avviene, l’art. 580 c.p. prevede la pena della reclusione da cinque a dodici anni.
Marco Cappato veniva tratto quindi a giudizio davanti alla Corte di assise di Milano per il reato di cui all’art. 580 c.p., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di DJ Fabo, quanto per averne agevolato l’esecuzione.
A conclusione del processo di primo grado, la Corte di Assise di Milano, pur escludendo la prima ipotesi accusatoria, con riferimento alla seconda sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.
In particolare, secondo la Corte d’Assise, l’incriminazione delle condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito della vittima, sarebbe in contrasto con i principi sanciti dagli articoli 2 e 13 della Costituzione, dai quali discenderebbe la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria vita.
Conclusione avvalorata – secondo i giudici di Milano – anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La Corte costituzionale evidenzia come “analogamente a quanto avviene nelle altre legislazioni contemporanee, anche il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio. Punisce, però, severamente (con la reclusione da cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone “in qualsiasi modo” l’esecuzione”.
Il legislatore intende dunque, nella sostanza, proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: “non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l’interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui”.
Quanto detto si pone in maniera ancora più decisiva nei confronti delle persone vulnerabili, che potrebbero essere facilmente indotte a concludere prematuramente la loro vita, “qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto”. Pertanto, non si può ritenere vietato al legislatore punire condotte che “spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana”.
Tuttavia, non si può non tener conto di specifiche situazioni, inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice è stata studiata, in cui il progresso della medicina e della tecnologia “spesso sono capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”
E lasciando alla persona la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli.
È evidente come, in questi casi, “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare”.
Del resto, la legge n. 219 del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, recependo le conclusioni della giurisprudenza, riconosce ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, compresi i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale, sottoponendosi a sedazione profonda continua.
In tali situazioni, quelle esigenze che giustificano la punibilità dell’aiuto al suicidio vengono a cadere.
Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce “per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli articoli 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile”.