L’Italia condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’impossibilità dell’interessato di ottenere il cambio del proprio nome per oltre 2 anni e mezzo è omissione dello Stato all’obbligo di assicurare il diritto al rispetto della vita privata del cittadino.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora in poi Corte EDU), sezione I, con la sentenza n. 55216/08, si è occupata del caso riguardante il nostro paese e relativo alla legittimità o meno del provvedimento di un prefetto di autorizzare un transessuale dall’aspetto femminile a cambiare il suo nome maschile.
La vicenda risale al lontano 2001, quando il Tribunale di Roma autorizzava la ricorrente a sottoporsi a trattamento chirurgico per il cambio di sesso.
Nelle more dell’intervento, la ricorrente, essendo di aspetto assolutamente femminile, in applicazione del decreto presidenziale n. 396 del 2000, aveva richiesto alla Prefettura la possibilità di modificare il suo prenome con uno che fosse più consono al suo aspetto fisico, onde evitare una situazione di costante umiliazione ed imbarazzo.
La richiesta, però, veniva respinta ed impugnata davanti al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Tribunale che si pronunciava solo nel 2008, quando ormai era avvenuta la rettifica anagrafica del sesso sulla base della procedura dettata dalla Legge n. 164/1982.
In particolare, nella sentenza del giudice amministrativo si legge che la disciplina del DPR n. 396/2000 non poteva trovare applicazione nel caso concreto poiché era necessario procedere alla verifica dell’avvenuta “conversione sessuale secondo quanto previsto dalla legge n. 164/1982.”
Che, come noto, prevedeva che al cambiamento del nome si dovesse procedere solo quando il giudice non avesse confermato l’avvenuta esecuzione dell’intervento chirurgico ed emesso una sentenza irrevocabile con cui accertava l’avvenuto cambiamento di sesso.
La ricorrente si rivolgeva pertanto alla Corte europea dei diritti umani, lamentando la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, nello specifico sostenendo che il rifiuto da parte delle autorità italiane di modificare il nome avesse leso il suo diritto all’identità di genere.
Secondo la Corte EDU nel caso in esame si deve parlare di una palese violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, secondo cui:”1 . Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
La Corte EDU, pur affermando l’esistenza di un ampio margine di discrezionalità da parte degli Stati nel dettare le condizioni per la modifica del nome delle persone, rileva che nel caso di specie non è stato effettuato un corretto bilanciamento fra tutti gli interessi in gioco.
In particolare, le autorità italiane non hanno valutato correttamente il caso specifico della ricorrente ignorando il fatto che la stessa stava effettuando una transizione di genere da molti anni e che la sua identità di genere fosse riconosciuta nel contesto sociale di riferimento prolugandone per più di due anni il disagio derivante da risultanze di stato civile difformi rispetto all’identità.
Del resto, come ben osservato dalla stessa Corte la legislazione, modificata nel 2011, (cfr. Decr.Leg.ivo n.150/2011, art. 31, comma IV), non prevede più la necessità della pronuncia di una seconda sentenza, essendo ad oggi ammesso che le annotazioni sul registro dello stato civile possano essere ordinate dal giudice con la stessa sentenza che autorizza l’intervento chirurgico per il cambiamento di sesso.
In tale scenario si colloca la Raccomandazione (2010)5 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 31.03.2010 in cui si rileva la necessità che gli Stati garantiscano procedure veloci e trasparenti per il cambio del nome delle persone trans gender ritenendo che non possa essere invocato alcun “valore culturale, tradizionale o religioso, né qualsivoglia precetto derivante da una “cultura dominante” per giustificare il discorso dell’odio o qualsiasi altra forma di discriminazione, ivi comprese quelle fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”.