I Comuni non possono obbligare le persone con disabilità a “consumare” i propri risparmi o a vendere i propri beni immobili per pagare le rette delle strutture residenziali.
Il TAR Lombardia, con la sentenza n. 1545 del 05.07.2019, accogliendo il ricorso presentato dall’associazione Ledha, ha dichiarato illegittimo il regolamento del Comune di Vigevano (PV) nella parte in cui prescriveva le condizioni affinché il Comune stesso potesse intervenire nell’integrazione delle rette dovute alle strutture residenziali che ospitano le persone con disabilità.
In particolare, il regolamento impugnato prevedeva che l’intervento del Comune a integrazione della retta della persona con disabilità dovesse aversi “solo se il patrimonio mobiliare dell’assistito risultasse inferiore ad euro 5.000”.
E nel caso in cui fosse presente un bene immobile, il regolamento prevedeva l’obbligo di venderlo o di affittarlo destinando i proventi al rimborso dell’integrazione anticipata dal Comune.
Il tutto con la precisazione che, in mancanza di accordo tra il Comune e l’assistito (o i suoi rappresentanti), l’ente locale avrebbe potuto rivalersi sulla futura eredità.
Ebbene, tutti questi punti sono stati dichiarati illegittimi dal TAR Lombardia.
I giudici hanno, infatti, evidenziato che il regolamento comunale era in contrasto con la normativa nazionale di compartecipazione alla spesa (Dpcm 159/2013), sottolineando come“in nessuna norma è previsto che, se superiore a determinati limiti, il patrimonio immobiliare debba essere interamente destinato alla copertura della retta; né è previsto che i Comuni possano imporre agli assistiti la messa a reddito del loro patrimonio immobiliare al fine di destinare i proventi al pagamento della retta stessa, o addirittura la rivalsa sull’eredità”.
La sentenza è importante anche perché precisa i limiti della possibilità che hanno i Comuni di “prevedere, accanto all’ISEE, criteri ulteriori di selezione volti ad identificare specifiche platee di beneficiari, tenuto conto delle disposizioni regionali in materia e delle attribuzioni regionali specificamente dettate in tema di servizi sociali e socio-sanitari” (cfr. art. 2, I comma, Dpcm n. 159/2013).
Questa “criteri ulteriori”, infatti, non possono essere di “natura economica” bensì solo “sociale” perché, diversamente, ogni Comune potrebbe individuare criteri di accesso e compartecipazione che violano il decreto ISEE.
Cosa assolutamente non possibile dal momento che l’ISEE è individuato quale “livello essenziale” per l’accesso e la determinazione della compartecipazione e non può, quindi, essere modificato a piacimento dalle amministrazioni comunali.
I Comuni, in altre parole, non possono, con i loro regolamenti, dare rilievo ad elementi diversi rispetto a quelli specificamente indicati nel d.p.c.m. n. 159 del 2013 al fine di determinare il livello di capacità economica dell’assistito.
Parimenti illegittima è, infine, la possibilità prevista dal regolamento comunale per il Comune di rifarsi sulla futura eredità in caso di mancato accordo.
Questa disposizione, infatti, non è conforme alle norme contenute nel nostro Codice civile in materia di successione ereditaria.
È, infine, in contrasto con l’art. 42 della nostra Costituzione nella parte in cui riserva alla legge (e non ai regolamenti comunali) il compito di stabilire regole e limiti in materia di successione legittima e testamentaria.